L’alluvione e le tempeste dei nostri nipoti

di Dario Zampieri – Docente universitario di Geologia, Università di Padova

Il trauma che ha vissuto la città di Vicenza è destinato ad essere lentamente metabolizzato, come tutti gli eventi luttuosi. La capacità di dimenticare gli eventi spiacevoli è una strategia di sopravvivenza dei singoli individui, sviluppata nel corso di un’evoluzione millenaria. Che però non si addice alle società se, come dimostra Jared Diamond in “Collasso”, la lezione della storia non viene assunta dalla società contemporanea per evitare che si ripetano eventi per cui popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi improvvisamente. Qual’ è dunque la lezione da imparare?

Chiunque potrebbe interpretare questa successione di eventi come effetto di un bombardamento da parte dei media, sempre a caccia di disastri per fare notizia, oppure potrebbe essere tentato di mettere in fila e collegare notizie catastrofiche che si ripetono con un ritmo sempre più serrato.

Tanto per fare l’esempio da cui siamo partiti, se si guarda la cronaca italiana degli ultimi tre mesi, si ricava l’impressione che l’autunno abbia portato al paese alluvioni dappertutto: 9 settembre Atrani, 18 settembre Milano, 4 ottobre Genova, 5 ottobre Prato, 13 ottobre Reggio Calabria e infine 1 novembre Vicenza. Potrebbero essere eventi isolati verificatisi per la concomitanza casuale di fattori sfavorevoli. Abbiamo sentito dire che la precipitazione piovosa è stata superiore a quella che ha provocato l’alluvione del 1966 e che contemporaneamente il foen ha sciolto la neve caduta in montagna nei giorni precedenti.

Effettivamente si è trattato di una “bomba d’acqua”, che ha interessato selettivamente il bacino del Bacchiglione, del Chiampo, del Tramigna e dell’Illasi. Il vicino Brenta, fiume prealpino ben più importante, non ha dato problemi. È anche percezione comune che per commentare tali fatti si usino sempre più spesso espressioni come “eccezionale”, “record”, “non si ricordava a memoria d’uomo”, e così via. Agli uffici della Difesa del Suolo della Provincia di Vicenza sono arrivate più di 200 segnalazioni di movimenti franosi e dissesti idraulici.

Nel frattempo, ci siamo già dimenticati che nell’estate 2003 una “bomba di calore”, fenomeno complementare alle “bombe d’acqua”, ha provocato in Europa oltre 50.000 morti. Chi frequenta l’alta montagna, ha visto con i propri occhi che i ghiacciai si stanno sciogliendo con un ritmo impressionante. Se si solleva lo sguardo dal nostro territorio e si allarga l’orizzonte al pianeta, le notizie sembrano stranamente (quasi) tutte seguire uno stesso filo conduttore. D’estate l’artico è oramai parzialmente libero dai ghiacci e questo preoccupa molto anche lo stato maggiore dell’esercito e della marina statunitense, il quale ha annunciato che non si tratta solo delle mappe che andranno ridisegnate per dar conto di rischi e di opportunità di navigazione e di controllo dei mari. Il mutamento dei monsoni e il moltiplicarsi di fenomeni come uragani, siccità e alluvioni rappresentano una minaccia concreta alla sicurezza degli Stati Uniti.

A questo punto qualcuno potrebbe essere tentato di vederci più chiaro e potrebbe mettersi ad approfondire l’argomento digitando parole chiave nei motori di ricerca del web. Potrebbe allora scoprire che la NOAA (National Oceanic & Atmospheric Administration), ente per la meteorologia degli USA, ha dichiarato che il 2010 è stato nel pianeta considerato nel suo insieme l’anno più caldo da quando esistono le misurazioni strumentali della temperatura (dal 1880). Detto in questi giorni di freddo intenso sull’Italia può sembrare una provocazione, ma non bisogna dimenticare che fino alla settimana scorsa nel sud Italia c’erano temperature estive. Non confondiamo la meteorologia, coi suoi sbalzi continui, col clima. Anche il presidente russo Medvedev sembra essersi accorto che i roghi e le ondate di calore che hanno contrassegnando l’estate russa 2010 nell’immaginario collettivo e nelle posizioni delle istituzioni pubbliche sono quello che l’uragano Katrina (2005) ha significato per gli Stati Uniti.

A questo punto sorge il sospetto che il ritmo incalzante di eventi meteoromlogici “estremi” sempre più frequenti e sempre più intensi non sia più solo una impressione, ma una realtà minacciosa. Del resto i potentissimi strumenti satellitari oggi a disposizione non lasciano dubbi al riguardo: l’estensione e lo spessore dei ghiacci si sta riducendo a una velocità impressionante.

Senza voler continuare a enumerare prove inconfutabili, che richiederebbero una biblioteca, dobbiamo ammettere sconsolatamente che il cambiamento climatico è già in atto, non è una minaccia futura. Ecco che allora l’alluvione di Vicenza, dalla quale eravamo partiti, non ci appare più come un evento irripetibile dato dal caso, ma il primo di una serie di eventi sempre più devastanti che interesseranno anche il nostro territorio.

Un’atmosfera più calda trattiene più vapore e ne trattiene molto di più in estate che in inverno. L’aria sopra il deserto del Sahara trattiene molto vapore acqueo, sebbene l’umidità relativa sia bassa. La ragione è che la quantità di vapore acqueo che l’aria può contenere prima di saturarsi, causando quindi la condensazione del vapore in acqua o ghiaccio (grandine), dipende fortemente dalla temperatura. I temporali si sviluppano dove un fronte di aria calda e umida entra in collisione con un fronte di aria fredda. Mentre l’aria calda e umida sale all’interno dell’aria circostante più fredda, il vapore acqueo condensa, rilasciando il calore latente. Grande quantità di umidità significa grande quantità di acqua o grandine che si scarica al suolo, quindi inondazioni di entità superiore. Inoltre, l’energia latente liberata diventa potenzialmente disponibile per alimentare una tempesta con forti venti, inclusi i tornado e le tempeste tropicali. Sempre la NOAA, dichiara che negli ultimi 30 anni è raddoppiata la percentuale di uragani di categoria superiore a 3.

Si potrebbe continuare, ma ragioni di spazio suggeriscono di venire al dunque, cioè alle cause del cambiamento climatico. Il 95% degli scienziati che se ne occupa ritiene che la causa sia dovuta al comportamento dell’uomo, vale a dire all’immissione in atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica prodotta dalla combustione delle fonti fossili (carbone, petrolio, metano) negli ultimi 250 anni, cioè dalla rivoluzione industriale.

Prima del 1750, la concentrazione di CO2 in atmosfera era di 280 ppm (parti per milione, significa 0,028% delle molecole nell’atmosfera). Attualmente la concentrazione è di 393 ppm. Ciò significa che in 260 anni si è avuto un aumento medio di 0,4 ppm per anno. 1 ppm di CO2 equivale in peso a 2,12 GtC (giga tonnellate di Carbonio, cioè 2,12 miliardi di tonnellate). Ma se si osserva un grafico con l’incremento nel tempo della CO2 in atmosfera, la curva non è una retta, presentando una concavità verso l’alto. In altre parole l’incremento annuale è in forte accelerazione e attualmente è di circa 2 ppm.

Perché è così importante la quantità di CO2 nell’atmosfera? Perché insieme con gli altri cosiddetti gas serra (metano, Clofluorocarburi e protossido d’Azoto) impedisce alla radiazione solare riflessa (infrarossa) dalla terra di sfuggire nello spazio, creando appunto un “effetto serra”.

Dunque il contenuto di anidride carbonica dell’atmosfera influenza enormemente la sua temperatura e determina cambiamenti climatici, talora drammatici, come documentano gli studi di paleoclimatologia. Durante il PETM (Paleocene-Eocene thermal maximum) avvenuto circa 55 milioni di anni fa, si verificò un riscaldamento globale compreso tra i 5 e i 9°C che portò il livello del mare 40 metri sopra il livello attuale. A questo punto i miei colleghi paleontologi mi obiettano che i cambiamenti climatici sono sempre esistiti, ben prima della comparsa dell’uomo. Ma il punto è che il riscaldamento del PETM si verificò in millenni e non in secoli, cioè a una velocità dieci volte inferiore del riscaldamento attuale provocato dall’uomo.

In ogni caso, quale che sia la causa, bisogna prepararsi a un’epoca di enormi sconvolgimenti. Fino a pochi anni fa sembrava che gli impatti climatici potessero essere tollerabili se la concentrazione di CO2 in atmosfera fosse rimasta entro le 450 ppm. Studi più approfonditi hanno mostrato che la soglia non superabile è invece di 350 ppm. Siamo dunque già oltre il punto di non ritorno? La situazione è certamente molto preoccupante, soprattutto per il futuro dei nostri figli e nipoti.

Il recente vertice mondiale sul clima a Cancun non sembra aver prodotto i risultati che sarebbero necessari, accontentandosi di dichiarazioni di intenti che prendono tempo rimandando al prossimo incontro di Durban . Il potere degli interessi privati, primariamente le lobbies del petrolio e del carbone, sui governi è insuperabile. Inoltre la brevità delle legislature fa passare in secondo piano le preoccupazioni sulle conseguenze a lungo termine.

Se vogliamo concludere tornando al punto di partenza, cioé a Vicenza, vien da dire che le opere di difesa idraulica prescritte dai tecnici all’indomani dell’alluvione del 1966, mai realizzate, sono certamente urgenti più che mai, ma non possono essere risolutive, dato il quadro globale del clima. Inoltre, la cementificazione del territorio che procede incessante continua ad accrescere il rischio idrogeologico. Solo la comprensione dei limiti delle risorse (tra cui l’aria e il suolo) del pianeta può innescare un processo virtuoso, a patto che si agisca in fretta. Poiché la terra non è piatta, ma una sfera di 6400 km di raggio, le risorse non sono infinite come prevedono implicitamente le teorie economiche. La straordinaria crescita materiale dell’umanità (o meglio di una parte di essa) dell’ultimo secolo è probabilmente destinata a rimanere un breve episodio, irripetibile, il cui conto pagheranno i nostri nipoti. Nella migliore delle ipotesi abbiamo di fronte una inevitabile decrescita, già iniziata per motivi solo apparentemente o solo in parte finanziari, che non significa necessariamente una vita qualitativamente peggiore, se sapremo prepararci al cambiamento.

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